In Brasile la relazione esistente tra la società, comprese le istituzioni statuali, il carcere e le realtà di marginalità, all’interno o in prossimità dei grandi centri metropolitani, non è accidentale o di semplice continuità, trattandosi piuttosto di una relazione di circolarità. Nelle quebradas di San Paolo o nelle favelas di Rio de Janeiro la vita si trascina secondo uno schema circolare, nel quale l’assenza dello Stato si traduce, da sempre e brutalmente, in assenza di diritto alla cittadinanza e in una serie di surrogati della stessa presenza statale, quali, per esempio, la creazione di sistemi di solidarietà diffusa, che, per il fatto di essere realtà sostenute in massima parte dal volontariato, il più delle volte non riescono a fare fronte alla carenza alimentare, scolastica, culturale e di umanità che in questi scenari della società brasiliana si incontrano.
La criminalità organizzata, sotto forma di facção (fazione), è l’altro surrogato dello Stato presente nella maggior parte dei quartieri poveri delle grandi città brasiliane, con cui, talvolta, quei sistemi di solidarietà diffusa sono costretti a dover scendere a patti per poter lavorare in una determinata comunità. Più particolare è il caso riguardante alcune chiese evangeliche attive nelle quebradas di San Paolo descritte, con maestria e dovizia di particolari, da Gabriel Feltran all’interno del suo Irmãos. Uma história do PCC, dedicato a spiegare la complessa organizzazione del Primeiro Comando da Capital, il sodalizio criminale oggi più potente in Brasile e forse nell’intero Cono Sul. Nei confronti di queste chiese, spesso loro stesse problematiche in termini sociologici, esiste una sorta di tolleranza da parte del crimine organizzato dovuta in parte alla peculiare struttura sociale brasiliana e in parte ad una considerazione di carattere prettamente economico. Nel primo caso, la spiegazione va rintracciata nel diverso peso sociale che un attivista, immediatamente associato dalle forze di polizia ad una “persona di sinistra”, e per esempio un pastore evangelico hanno.
La gran parte delle forze di polizia brasiliane, in particolare la Polizia militare e quella civile, cui sono da aggiungere i rispettivi corpi cosiddetti di élite (BOPE, ROTA, CORE, etc.), hanno un retroterra ideologico di destra e di estrema destra, vedendo da sempre iniziative di carattere sociale all’interno di favelas e quebradas come un fattore di disturbo alle loro attività di “lotta” al crimine organizzato a causa della vigile attenzione rivolta da associazioni e persone sul territorio al tema dei rispetto dei diritti umani. A ciò si aggiunga che può verificarsi il caso che una determinata entità religiosa, presente all’interno di una comunità, sia anche la chiesa evangelica di riferimento di alcuni membri delle stesse forze di polizia, creandosi, in tal modo, un legame di cui la chiesa in oggetto verrà a beneficiarsi. Le chiese evangeliche, il cui ruolo nella più generale realtà brasiliana è spesse volte, come minimo, controverso, differiscono dall’associazionismo per il fatto di non portare avanti alcun tipo di discorso volto a criticare l’attivismo criminale di un’ampia fetta degli apparati di polizia all’interno delle cosiddette comunità carenti, né la presenza delle stesse organizzazioni criminali.
Tale postura delle chiese evangeliche si lega, per altro verso, al fatto di queste offrirsi come scelta alternativa per un giovane di una favela o di una quebrada rispetto alla possibile caminhada offertagli dall’ingresso in qualche facção come il Comando Vermelho a Rio de Janeiro o il già citato PCC a San Paolo. Nello specifico, il grande elemento di differenza tra associazioni di solidarietà e sostegno alle comunità povere e le chiese evangeliche, agli occhi degli organi di pubblica sicurezza, è rappresentato dalla questione concernente i diritti umani. Le associazioni – che in molti casi sono anche legate a specifici partiti politici, esistendo tra queste due realtà un virtuoso sistema di vasi comunicanti – non limitano la loro azione all’interno della comunità alla salvezza del giovane dal cadere nelle grinfie della fazione criminale che là domina, ma sono aperte ad un discorso di carattere generale fondato sul disarmo, sulla pacificazione di realtà attraversate da conflitto e su un tipo di impegno che travalica i confini del bairro in cui operano, ampliando il proprio raggio di azione, in molti casi, anche alla drammatica situazione dell’incarceramento di massa, che in Brasile ha una connotazione razziale, prima ancora che sociale, del tutto specifica.
Carceri, che rappresentano il terzo elemento del circolo vizioso citato nel titolo di questo articolo. Dalla favela, in cui domina l’assenza dello Stato, da un lato, e la sua presenza come violenza indiscriminata (facções, corpi di polizia), dall’altro, il soggetto passa al carcere, che viene a rappresentare un’autentica università del crimine, per poi ritornare alla favela o, se fortunato, godere un’effimera vita di lusso, prima di “rientrare” in carcere o uscire dal circolo vizioso per mano di un avversario, forze di polizia in primis. La difesa dei diritti umani da parte delle associazioni che operano sul territorio rappresenta il tentativo da queste praticato di reinserire in certo qual modo lo Stato, sotto forma di rispetto della vita e dello Stato di Diritto, all’interno della quebrada, cui si oppone la violenza, il più delle volte al di sopra della legge, esercitata dai corpi di polizia e ovviamente delle organizzazioni criminali.
Questa triangolazione tra associazioni, forze di polizia fuori controllo e crimine organizzato va chiaramente a vantaggio degli ultimi due soggetti menzionati, lasciando in una posizione di esposta debolezza coloro che portano avanti istanze legate a garanzie costituzionali e Stato di Diritto. Dialettica, questa, che non coinvolge, se non raramente, le chiese evangeliche, le quali non portano il discorso sui diritti umani, quanto, piuttosto, sulla classica dimensione religiosa della colpa, del peccato e di una vita orientata secondo gli insegnamenti della Bibbia. Le chiese evangeliche potranno salvare anime nella misura in cui a questa salvezza spirituale corrisponda un eguale grado di salvezza materiale. In questo caso, la famiglia continuerà a frequentare la realtà religiosa, cercando di evitare le “allettanti” proposte provenienti dal crimine organizzato.
La più cruda realtà materiale, come è facile immaginare, svolge un ruolo primario, perché, in moltissimi casi, chi all’interno di una favela è al soldo delle facções, non ha in mente di trasformarsi un giorno nel Pablo Escobar della propria comunità – per carità vi sono anche questi aspiranti Patrón e non sono pochi -, ma spesso, specie nel caso di bambini impiegati come vedette o in attività di spaccio (vapor, aviãozinho), la ragione di questa discesa agli inferi è la necessità per la famiglia che il figlio partecipi di attività illegali al fine di non scivolare dalla povertà alla miseria. In questo senso è illuminante quanto scritto da Carlos Amorim nel suo Comando Vermelho, A Historia Secreta Do Crime Organizado dedicato alla genesi e affermazione del Comando Vermelho a Rio de Janeiro. Libro che comincia con la descrizione di uno di questi bambini del narcotraffico, vite a perdere, i cui genitori, spesso madri sole e con più di un figlio, si vedono obbligati a far lavorare come piccoli narcos, perché la droga, alla fine, paga più che bene.
Parimenti, questa situazione di vero ‘apartheid razziale’, interno alla triangolazione esistente tra favela, Stato e carcere in Brasile, non è che il prodotto finale di un lunghissimo processo storico, sociale ed economico, che è venuto plasmando la realtà brasiliana di oggi. Per riprendere una tesi espressa dal sociologo portoghese Boaventura de Sousa Santos, in questo caso declinata con riferimento al Brasile, il progetto di modernità qui realizzatosi sembra essere coinciso, da ultimo, con un tentativo di sintesi di concetti tra loro in contrasto, quali «giustizia/autonomia, solidarietà/identità, emancipazione/soggettività, uguaglianza/libertà» (B. de Sousa Santos, Pela mão de Alice: o social e o político na pós-modernidade, São Paulo, 2005, p. 137). In questo senso, il lato problematico della proposta civilizzatoria brasiliana pare consistere in una sempre reiterata spaccatura tra piano astratto del reale e piano concreto. Pertanto, alla criminalizzazione, riconosciuta in termini di legge, del razzismo, non è mai corrisposto un eguale impegno in termini culturali al fine di superare quel regime di apartheid richiamato in precedenza. Questa sfasatura tra la legge e la vita è venuta di fatto innervando l’intero processo di sviluppo delle istituzioni brasiliane, dando forma ad una situazione, che si trascina sino ad oggi, e che presenta tratti del tutto paradossali.
L’espressione di precetti egualitari all’interno dell’ordinamento giuridico brasiliano, come mostrato da Alfredo Cataldo Neto e Eliane Peres Degani, risale addirittura al tempo del Brasile imperiale, iniziandosi in quel periodo lo sviluppo parallelo tra una riconosciuta eguaglianza formale, espressa tanto in ambito costituzionale come in quello appartenente al diritto penale, e la discriminazione reale praticata tanto dai cittadini come dalle stesse istituzioni (A. Cataldo Neto; E. Peres Degani, Em busca da igualdade prometida: redescobrindo a criminalização do preconceito no Brasil, in Criminologia e Sistemas jurídico-penais contemporâneos, R.M. Chittó Gauer (org.), Porto Alegre, 2010, p. 22). Uno stato di cose, questo, che si riverberò nel caso delle cosiddette Ordenações Filipinas, che costituirono un decisivo momento criminalizzante all’interno della storia del primo diritto penale brasiliano, sebbene questi ordinamenti si collochino ancora nel periodo coloniale. Le Ordenações, infatti, ammettevano una serie di atti discriminatori, nei confronti soprattutto di minoranze etniche, che andavano a modellare, anche sotto il profilo sociale, un quadro fortemente discriminatorio, per altro verso, sanzionando la postura criminalizzante del diritto penale.
L’idea, alla base di questi ordinamenti filippini, poggiava su due piloni del tutto fondamentali per comprendere la complessa relazione venutasi a creare in Brasile tra favela, carcere e Stato: da un lato, la discriminazione, che in questi ordinamenti guadagnava uno spazio legale destinato a solidificarsi nel corso del tempo come prassi sociale, peraltro di contro allo stesso diritto penale, mentre, dall’altro, il diritto penale cominciava ad assumere un programma criminalizzante, che, già a partire dalla Costituzione del 1824 e dal successivo Codice di Procedura Penale del 1830, avrebbe cercato di mettere al centro la giustizia e l’equità in ossequio ad un approccio liberale di tipo formale.
Ciò che già in questo Codice di Procedura Penale cominciava ad affacciarsi, era l’idea, priva di alcun fondamento, secondo la quale la difesa di valori riconosciuti dalla società, quali la giustizia, passava per una postura criminalizzante assunta in sede di diritto penale. Un ragionamento fallace e nel contesto brasiliano pragmaticamente funzionale a mantenere bloccata la stessa struttura sociale. La mancanza di interazione tra la dimensione delle riforme sociali e quella legata alla sfera del diritto penale avrebbe col tempo sempre più sbilanciato la relazione tra società e applicazione del diritto a vantaggio del secondo elemento, risaltandone il carattere sostanzialmente punitivista. Quanto oggi è possibile cogliere nei ripetuti richiami, provenienti da destra come da una parte della sinistra, all’incarceramento come panacea di ogni male, senza cogliersi, in particolare a sinistra, il lato barbaro di tali reiterate richieste.
La progressiva separazione tra l’elemento sociale e quello riconducibile al diritto penale sembra essere all’origine dello slittamento semantico registratosi in Brasile, almeno sin dai primi anni seguenti l’abolizione della schiavitù, consistente nella trasformazione del ‘differente’ in ‘illecito’ (cfr. L. Streck; J. L. Bolzan de Morais, Ciência Política e Teoria do Estado, Porto Alegre, 2006, p. 134). Il giovane che abita la favela di Rio de Janeiro o la quebrada di San Paolo è spesse volte percepito dalle autorità di pubblica sicurezza non come un cittadino ‘differente’ riconducibile ad un universo sociale definito, quanto come un non-cittadino, un soggetto che, per il solo fatto di vivere in una data realtà, fa parte del paesaggio, per così dire, nel quale vive. Paesaggio caratterizzato dal dominio dell’ ‘illecito’. La trasformazione di ciò che è ‘differente’ in ‘illecito’, da parte delle autorità di pubblica sicurezza, è alla base delle stragi frequentemente compiute all’interno delle favelas di Rio de Janeiro (da quella avvenuta nella comunità del Jacarezinho il 6 maggio del 2021 fino all’ultima registratasi pochi giorni fa a Guarujá, località del litorale di San Paolo) o delle prigioni preventive senza alcun fondamento legale, anch’esse assai frequenti nelle zone povere urbane del Brasile.
L’importanza del Codice di Procedura Penale del 1830 simbolizzava la contraddizione esistente in Brasile all’epoca tra idee liberali e mantenimento del sistema schiavistico, ciò che in seguito avrebbe posto le basi per la nascita e lo sviluppo dell’odierno autoritarismo delle forze di polizia (Cfr. E.R. Zaffaroni; N. Batista; A. Alagia; A. Slokar, Direito Penal Brasileiro, v. 1, Rio de Janeiro, 2003, p. 428). L’inconciliabilità tra affermazione di un ideale di vita borghese e la manutenzione di una cultura schiavista non scomparve nemmeno con l’approvazione del primo Codice di Procedura Penale repubblicano nel 1890. Quel che si verificò in Brasile, a seguito dell’abolizione della schiavitù nel 1888, è stato mirabilmente descritto da Gilberto Freyre nel suo Sobrados e Mucambos. Le grandi proprietà terriere, dove si coltivava la canna da zucchero, lasciarono il posto al brutale processo di inurbamento di una gran quantità di afrodiscendenti, i quali, affrancatisi dalla schiavitù, andarono a costituire la massa dei poveri senza nome all’interno delle varie città brasiliane. A quest’epoca risale anche il processo di popolamento dei cosiddetti morros di Rio de Janeiro, cellule urbane delle future favelas, i quali divennero il luogo di uno sviluppo del tutto privo di pianificazione, ciò che oggi rende questi territori difficilmente accessibili da parte di soggetti esterni, forze di polizia comprese.
Un altro elemento sancito dal Codice di Procedura Penale del 1890, che ancora si riflette nella conformazione sociale di molte città brasiliane, era la cosiddetta ‘preservazione dei luoghi sociali’, per mezzo della quale si stabilivano frontiere, che in nessun momento dovevano essere oltrepassate. In altre parole, la manutenzione dell’ordine sociale comportava l’obbligo da parte del potere e delle sue articolazioni sul territorio, in particolare gli apparati di pubblica sicurezza, di mantenere ogni cosa e persona nel suo luogo e ruolo di appartenenza (Cfr. Zaffaroni et al., op. cit., 2003, p. 457). Una situazione di immobilismo sociale, marcata in termini razziali, riscontrabile ancora oggi con le basse percentuali di accesso della popolazione afrodiscendente (come indigena) all’università pubblica o, peggio ancora, del sistematico sbarramento da loro sofferto per quanto concerne l’accesso alla magistratura e ad incarichi politici di tipo elettivo.
Uno dei principali responsabili di questa situazione di immobilismo sociale può essere individuato nel coronelismo. Fenomeno spiccatamente brasiliano e per certi versi alternativo a quello più propriamente di area spagnola del caudillismo, il coronelismo deriva la propria origine dalla divisione dell’immenso territorio brasiliano in aree, anche di piccole dimensioni, poste sotto l’egida del classico signorotto locale, il coronel, la cui concentrazione di potere gli permetteva di governare con pugno di ferro. Non sarà un caso, del resto, se nel sertão nordestino, dove forte fu da sempre la presenza del coronelismo, a partire da una certa data, sorga il movimento dei cangaceiros, che nella complessa figura di Lampião troverà il suo massimo, nonché contraddittorio, interprete. L’immobilismo sociale imposto dalla presenza del coronelismo nelle zone nordestine giocò, quindi, un ruolo decisivo nella formazione di un fenomeno di banditismo tanto peculiare come quello rappresentato dal cangaço.
Molto più tardi, ormai prossimi al crepuscolo della dittatura, nel 1979, quel mix micidiale di immobilismo sociale, incomprensione delle più basilari esigenze espresse dalla parte più povera della popolazione, associato ad una sempre più criminalizzante postura assunta dal diritto penale, saranno tra le principali cause della nascita della prima grande organizzazione criminale brasiliana: il Comando Vermelho. Lo squilibrio tra la sanzione penale delle pratiche discriminatorie e la loro pacifica continuazione in ambito sociale ha comportato che il discorso sull’uguaglianza davanti alla legge divenne in Brasile il discorso ufficiale. Un discorso, che, in ultima istanza, poggiava sul riconoscimento per via legislativa di una retorica egualitaria, mentre «la politica si prendeva cura di preservare la disuguaglianza» razziale, sociale ed economica (J. Da Silva, Direitos Civis e Relações Raciais no Brasil, Rio de Janeiro, 1994, p. 126).
L’assunto concernente l’uguaglianza di ciascuno davanti alla legge, efficacemente neutralizzato nel quotidiano sociale delle varie minoranze presenti in Brasile, era ribadito anche nella Costituzione varata nel 1967 dalla dittatura militare, come pure nell’Emendamento Costituzionale n. 1 del 1969, dove anche era prevista una sanzione specifica per tutti coloro che commettessero un qualche reato ricollegabile al pregiudizio razziale. In questo senso vale la pena ricordare quanto Gilberto Freyre osserva in vari passaggi del suo Casa Grande e Senzala, mettendo in evidenza la differente tipologia del razzismo brasiliano rispetto, per esempio, a quello praticato in Sudafrica, dove la apartheid riguardò anche i differenti ambienti destinati ai bianchi e ai neri. In questo senso, il razzismo brasiliano fu, almeno in termini di apparenza, più “inclusivo”, avendo realizzato una effettiva mescolanza. Non che questo abbia evitato una medesima apartheid dal punto di vista razziale, ciononostante tale esclusione sociale delle comunità afrodiscendenti dagli ambiti di vita riservati ai bianchi ha assunto dinamiche del tutto peculiari nel caso brasiliano, come Freyre cercò di mettere in luce nel suo pionieristico lavoro del 1937.
La retorica egualitaria, che trovava espressione sul piano legislativo, veniva così a rappresentare una sorta di minima concessione fatta dalle élites bianche al fine di mantenersi al potere e possibilmente evitare tensioni sociali o rivendicazioni di una maggiore giustizia sociale. Di contro a questa, rimase, tuttavia, l’impianto criminalizzante associato al diritto penale, ciò che trovò rinnovato slancio nella Costituzione del 1988, dove si cercava di combattere la discriminazione soltanto ricorrendo agli strumenti che l’ambito penale poteva mettere a disposizione. In tal modo, «orientato alla consacrazione della eguaglianza, inteso come principio supremo, il legislatore optò per l’intervento penale, senza prendere in considerazione altre possibili misure aventi di mira l’inclusione e la valorizzazione delle differenze» (A. Cataldo Neto; E. Peres Degani, in op. cit., p. 35). In primo luogo, concreti progetti di inclusione socio-economica, rivolti soprattutto alle comunità afrodiscendenti, a cui si sarebbero dovute affiancare non meno importanti misure di tipo culturale volte ad un superamento del razzismo per mezzo di strumenti di tipo pedagogico e campagne di sensibilizzazione sociale ad hoc.
Da ultimo, in controluce con quanto siamo venuti sviluppando in riferimento alla storia brasiliana, si può dire che funzione precipua del diritto penale dovrebbe essere quella di «garantire ai cittadini un’esistenza pacifica, libera e socialmente sicura, sempre e quando tali obiettivi non possano essere raggiunti con altre misure, politiche e sociali, che incidano in maniera minore sul sistema delle libertà a ciascuno concesse». (Ibidem, p. 37). In altre parole, il diritto penale come extrema ratio.
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Credit Photo: Bernardo Jardim Ribeiro/Sul21
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